C’è un’Italia reale e un’Italia immaginaria. La prima è fatta di dati, contraddizioni e complessità. La seconda è un collage di frasi fatte, immagini rassicuranti e stereotipi ripetuti all’infinito: «Gli italiani sono mammoni», «Qui la burocrazia uccide», «Siamo il paese più bello del mondo». Ma come nascono questi cliché? E, soprattutto, perché resistono nonostante la realtà li smentisca giorno dopo giorno? I luoghi comuni non spuntano dal nulla. Sono il prodotto di una fabbrica invisibile che lavora a pieno ritmo, alimentata da tre macchinari principali: la narrazione turistica, la retorica politica e l’autorappresentazione culturale. L’Italia viene venduta come una cartolina vivente: pizza, mandolini e tramonti sulla laguna. Peccato che il paese sia anche distretti industriali in crisi, periferie dormitorio e un PIL che arranca tra stagnazione e precarietà. Ma ai visitatori (e al mercato) serve la favola, non la realtà. Raccontare l’Italia autentica richiederebbe un impegno che rischierebbe di infrangere l’incanto: e così, meglio il sole che bacia i colli toscani che il degrado di certe stazioni del Sud. I leader, da parte loro, trasformano i cliché in armi retoriche. «Noi italiani siamo così» diventa un mantra comodo, una giustificazione automatica per ogni inefficienza («è il nostro DNA») o un’autocelebrazione strategica («siamo unici», «facciamo cose incredibili con poco»). E mentre si intona l’inno all’italianità, i problemi strutturali – corruzione sistemica, servizi pubblici discontinui, diseguaglianze territoriali – restano lì, immobili, come un fondale che nessuno vuole realmente affrontare. Anche gli italiani, dal canto loro, adorano raccontarsi attraverso stereotipi. È più rassicurante definirsi «geni creativi ma indisciplinati» che guardare in faccia il declino industriale, la fuga dei cervelli, l’analfabetismo funzionale che colpisce milioni di adulti. I luoghi comuni funzionano come scudi psicologici: proteggono l’identità da minacce esterne, ma anche da un confronto interno troppo faticoso. Se dici «all’estero non hanno il nostro gusto», trasformi una piccola verità (la tradizione culinaria italiana) in una barriera contro l’innovazione o la contaminazione. È un meccanismo di difesa che, però, si trasforma spesso in un boomerang. Il mito del «made in Italy intoccabile», ad esempio, ha rallentato l’evoluzione di settori come la moda o il design, dove oggi inseguiamo e non guidiamo, superati dalla Francia, dalla Corea, dalla Cina. Lo stesso vale per il familismo amorale, celebrato come forma di solidarietà intima, ma che spesso cela un sistema che soffoca il merito e alimenta reti di favori e raccomandazioni. Dietro l’orgoglio di «aiutare prima i parenti» si cela un disegno sociale che esclude chi non ha agganci e accentua la disuguaglianza. Persino l’autoironia italiana, così brillante e celebrata, diventa un alibi per l’immobilismo: dire che «siamo un popolo di santi, poeti e navigatori… e di evasori» serve più a ridere che a cambiare davvero. Usare i cliché senza esserne vittime richiede consapevolezza. Bisogna saperli riconoscere, destrutturarli, osservarli da vicino come si osserva un vecchio giocattolo rotto. Quella frase che inizia con «Noi italiani siamo…» è quasi sempre una bandiera rossa: una spia che ci segnala che stiamo entrando in territorio mitico, non analitico. Poi dobbiamo chiederci: “È ancora vero?” Nel 1950 l’Italia era rurale, patriarcale, fondata sul lavoro manuale e sul culto della famiglia. Oggi il 70% degli italiani vive in città, le donne lavorano, le famiglie si restringono, eppure il cliché del «paese della mammà» continua a resistere, come se il tempo non fosse mai passato. Gli stereotipi non spariranno. Sono troppo comodi, troppo utili. Semplificano il mondo, creano identità, vendono prodotti, alimentano campagne pubblicitarie e discorsi pubblici. Ma possiamo smettere di crederci ciecamente. Possiamo imparare a usarli come si usano gli specchi deformanti: non per guardarci davvero, ma per divertirci un attimo e poi tornare alla realtà. L’Italia vera è altrove. Non nelle cartoline, ma nelle sue contraddizioni. È nel pendolare che si alza alle cinque del mattino e nei giovani che lavorano in remoto per aziende straniere perché qui nessuno li assume. È nella bellezza che sopravvive al degrado e nella voglia di riscatto che convive con la rassegnazione. È nei suoi paradossi, nel suo caos fecondo, nelle sue ferite e nella sua capacità di reinventarsi. E forse, è proprio lì che si nasconde la sua vera unicità. Non nella favola che raccontiamo al mondo – e a noi stessi – ma nella realtà che continuiamo, ostinatamente, a evitare. Il luogo comune è come il caffè della stazione: sa di poco, ma a volte è l’unica cosa che ci tiene svegli nel viaggio. Basta non scambiarlo per un buon espresso.
